Vitangelo sa di aver scoperto le sue trame dinanzi a Dida (“[...] fragile bambola, là ributtata con tanta furia sulla poltrona”), di averle dato prova di essere un altro, un uno ancora da definire ma l’incertezza lo attanaglia: non merita i soldi del padre, poiché non è più un usuraio e non ha fatto assolutamente nulla per ottenerli degnamente; non merita l’affetto di Dida, bramosa di un amante diverso da lui. Dopo la discussione in salotto, i domestici informano Vitangelo che Dida è andata via con Quantorzo: la donna ha scelto di abbandonare la loro dimora, ormai stanca delle stranezze e delle follie di suo marito.
La mattina seguente il padre di Dida è in visita da Vitangelo: il suo arrivo riaccende nel protagonista il desiderio di rappresentare tutti i Moscarda che l’uomo aveva fin da quel momento conosciuto, in particolare quello dello “stupidissimo uomo sempre soddisfatto di sé”. Il suo estro prende vigore proprio quando il suocero si prepara a imbastire uno dei dialoghi più seri che i due avessero mai reciprocamente intrapreso. In ballo ora c’erano le sorti della banca e della famiglia ma Vitangelo appare disinteressato e superficiale in merito a tali argomenti, tutto atto invece a svincolare la figura di marionetta dagli occhi dell’altro. Ciò che adesso lo anima è pensare al proprio futuro, descrivendosi pronto a intraprendere un percorso universitario, immaginando se stesso come avvocato, medico o professore. Inoltre, dichiarando sin da subito che egli non si incatenerà a nessuna forma, avendo avviato da tempo un proprio processo di emancipazione identitaria, getta il suo interlocutore nello sconforto. Assieme agli altri familiari, anche il suocero infatti inizia a credere che Vitangelo ormai sia pazzo e che non ci possa essere alcuna cura per il suo male se non un ricovero coatto all’interno di un manicomio.