Il narratore del Don Chisciotte, sia in questa seconda parte che nella prima, fa molte cose: racconta in tono neutro, dà opinioni, commenta, critica, deride e persino scherza. In un certo senso, si può dire che la sua funzione sia mutevole, in movimento, nello stesso modo in cui don Chisciotte e Sancio si muovono in cerca di avventure. Per molti critici, questo narratore è una delle più grandi conquiste artistiche di Cervantes, e alcuni lo hanno addirittura definito la terza voce protagonista.
Ma dove risiede questa singolarità che rende il narratore del Don Chisciotte così speciale? Forse uno degli aspetti più rappresentativi è la sua capacità di passare costantemente dall’onniscienza alla non onniscienza e viceversa. Il narratore non si fa scrupolo di esporre una certa insicurezza su ciò che racconta attraverso espressioni come “sembra che sia così”, “deve essere così”, “non c'è dubbio”. In questo senso, egli stesso sa di non essere forse così affidabile, e proprio per questo, per contrastare questa sensazione di inaffidabilità che costantemente genera, il narratore elogia la capacità dello storico moresco Cide Hamete Benengeli di aver registrato ogni minimo dettaglio delle avventure di don Chisciotte. Si apre così il capitolo XL della seconda parte:
“Davvero davvero che tutti coloro i quali si dilettano di storie simili a questa, debbono mostrarsi grati a Cide Hamete, primo suo autore, per l'accuratezza che ebbe in raccontarcene i più piccoli particolari, non tralasciando cosa alcuna, per minima che fosse, senza trarla alla luce partitamente. Egli ritrae i pensieri, rivela le fantasie, risponde alle tacite domande, chiarisce i dubbi, ribatte gli argomenti; insomma anche le minuzie egli spiega che l'indagatore più scrupoloso possa desiderare. Oh, celeberrimo autore!”
In questa citazione è possibile notare come il narratore cerchi di rafforzare l’attendibilità del suo racconto elogiando la meticolosità dello storico su cui fa affidamento. Allo stesso modo, verso la fine, si osserva uno slancio di ammirazione da parte del narratore, cioè una quota di soggettività assoluta che arricchisce ulteriormente la voce narrante.
Un altro aspetto interessante di questo narratore è che, molte volte, non racconta le cose direttamente, dalla sua prospettiva, ma attraverso le percezioni dei personaggi. Ad esempio, nel capitolo 10 della seconda parte, quando le tre contadine lasciano Toboso, il narratore non racconta la storia in questo modo, ma attraverso gli occhi di Sancio:
“E gli venne tanto bene, che quando si alzò per montare sull'asino, vide che dal Toboso venivano verso il luogo dov'egli si trovava, tre contadine su tre ciuchini o fors'anche ciuchine: l'autore non lo spiega, ma è più credibile che fossero asine, perché ordinarie cavalcature delle campagnole; siccome però questo non ha molta importanza, non c'è ragione di trattenerci in indagare la verità.”
In questa citazione le contadine lasciano Toboso dopo che Sancio le ha viste andar via. In altre parole, per tutto il romanzo il narratore si appella ai sensi dei personaggi per dare corpo alle azioni. È come se la sua voce narrante non fosse sufficiente, forse per la sua impronta esitante, a convincere i lettori, e deve prendere i personaggi stessi come complici di ciò che sta narrando. Questa strategia, cioè, fa sì che l’esperienza diretta degli eventi ricada sui personaggi, mentre ci mostra quella sfaccettatura onnisciente del narratore. D’altra parte, con una sottile apposizione (“l'autore non lo spiega”), egli fa anche sottilmente notare che c’è stata una svista da parte dello stesso Cide Hamete nel non chiarire se gli asini cavalcati dalle contadine fossero maschi o femmine.
Infine, un altro aspetto interessante di questo narratore è che ha le sue idee sui personaggi e sulle loro azioni. Sono frequenti e del tutto arbitrari gli aggettivi che egli dissemina nel corso della storia con assoluta impunità. Espressioni come “il povero cavaliere”, “pensando a quelle sciocchezze”, “la sua folle immaginazione”, “quelle sciocchezze”, “il povero scudiero” si trovano praticamente in ogni pagina del romanzo.
Allo stesso modo, un’altra risorsa abbastanza caratteristica di questo narratore è quella di inserire improvvisamente un verbo in prima persona per enfatizzare un’idea o dare più forza a un’opinione. L’esempio forse più rappresentativo si trova alla fine del romanzo: “Il quale, fra i pianti e i lamenti di coloro che vi si trovarono presenti, rese l'anima sua: vale a dire, se ne morì”. Questa precisazione, introdotta attraverso un verbo in prima persona, sembra quasi ironica; come dire “nel caso in cui qualche ignaro non abbia capito la metafora della rinuncia allo spirito, il protagonista di questo romanzo è appena morto”. Perché lo fa? In parte perché è nella sua natura essere ironico o sarcastico, in parte per attirare l’attenzione del lettore sulla sua presenza nel testo.