Ronzinante
In questa seconda parte del romanzo, Ronzinante viene descritto più volte attraverso immagini diverse. Appare per la prima volta sulla scena nel capitolo 4 attraverso un’immagine uditiva:
“Non aveva ben finito Sancio di fare questo discorso che sentì nitrire Ronzinante; i quali nitriti don Chisciotte interpretò per felicissimo augurio, sì che stabilì di fare, di lì a tre o quattro giorni, una nuova uscita […].”
Da questo nitrito, don Chisciotte decide di partire per la terza volta, cioè di iniziare l’avventura di questa seconda parte. Vale la pena di notare che, all’epoca, sentire il nitrito di un cavallo prima di mettersi in viaggio significava che il viaggio si sarebbe concluso felicemente. Le prove storiche di questa credenza non mancano.
D’altra parte, Cervantes usa Ronzinante anche per descrivere il paesaggio attraverso il quale don Chisciotte e Sancio viaggiano: “[Don Chisciotte] senz'accorgersene, lasciò lente le redini a Ronzinante, il quale sentendo la libertà che gli si concedeva, a ogni passo si fermava a pascere la verde erba di cui era sì grande abbondanza per quelle campagne”.
Allo stesso modo, come nella prima parte, anche in questo secondo libro Ronzinante riflette una certa decadenza che può essere attribuita a don Chisciotte:
“Don Chisciotte, a cui sembrò che il nemico gli venisse addosso di volo, piantò con ogni forza gli sproni negli smilzi fianchi di Ronzinante e lo sospinse per modo che la storia racconta che questa volta soltanto si vide che era andato alquanto di galoppo, giacché tutte le altre non erano stati se non trotterelli.”
In questa citazione, gli “smilzi fianchi” indicano la snellezza del cavallo, una snellezza che, come sappiamo, è anche una caratteristica di don Chisciotte. Inoltre, il fatto che non galoppi praticamente mai si riferisce all’età avanzata di Ronzinante, altro tratto distintivo del suo cavaliere.
Il matrimonio di Camaccio e Chiteria
Questo evento è descritto in dettaglio nel capitolo 20 attraverso varie immagini sensoriali:
“La prima cosa che si presentò alla vista di Sancio fu, infilzato in un tronco sano sano di olmo per schidione, un vitello intero. Sul fuoco al quale doveva essere arrostito ardeva una discreta catasta di legna, e sei pentole messe torno torno non erano state fatte davvero sul comune stampo delle altre pentole, giacché parevano piuttosto sei grossi orci da potere ognuno contenere la carne di tutto un macello, tanto che assorbivano e racchiudevano in sé dei montoni interi, senza neanche parere, come fossero piccioncini. Le lepri già spellate e le galline già spennate che penzolavano qua e là dagli alberi per essere tumulate nelle pentole non si contavano; i volatili e la cacciagione di diverse specie erano un'infinità, appesi ai rami degli alberi perché infrollissero all'aria.”
Questa descrizione, ricca di immagini visive, enfatizza la prospettiva di Sancio, che viene caratterizzato come goloso.
D’altra parte, vengono descritti anche i ballerini delle danze che si svolgono al matrimonio:
“Di lì a poco presero a entrare da più parti dell'infrascata molte e svariate danze, fra cui una con le spade, di circa ventiquattro giovani di leggiadro aspetto e vivaci, tutti vestiti di fina e candida tela, con i loro fazzoletti da testa, ricamati in seta fina di vari colori. A colui che faceva da guida e che era uno svelto garzone, domandò uno di quelli a cavallo se mai qualcuno dei danzatori si fosse ferito.”
A questo punto, vale la pena notare come le descrizioni enfatizzino la qualità degli abiti degli ospiti. Qualche riga più avanti, compare un’altra descrizione che, ancora una volta, sottolinea la qualità degli abiti, ma si concentra anche su alcune caratteristiche fisiche delle ballerine associate alla bellezza:
“E bello gli parve pure un altro che entrò, di fanciulle quanto mai avvenenti, così giovani che, a quanto sembrava, nessuna aveva meno di quattordici anni e non giungeva a diciotto, tutte vestite di pannolano verde, con le chiome parte a trecce e parte disciolte, e bionde talmente da poter gareggiare con i raggi del sole; sulle quali inoltre portavano ghirlande intessute di gelsomini, di rose, di amaranti e di madreselva. Le guidava un venerando vecchio e una matrona attempata, più agili e svelti tuttavia che non promettesse la loro età. Segnava il tempo e la musica alle danzatrici una ciaramella di Zamora, ed esse, mostrando nel viso e negli occhi l'onestà e nei piedi l'agilità, davano a vedere di essere le migliori ballerine del mondo.”
In questa citazione si può apprezzare anche un’immagine uditiva in cui la “ciaramella di Zamora” mette in musica le numerose immagini visive offerte nella descrizione.
La caverna di Montesinos
La caverna di Montesinos è di per sé un’immagine molto forte nel racconto, non solo per come viene descritta, ma anche perché è uno spazio onirico in cui don Chisciotte vive in una realtà e in un tempo paralleli. All’inizio, quando il cavaliere errante arriva con il suo scudiero, la caverna viene descritta così:
“Don Chisciotte rispose che quando pure fosse profondo fino all'inferno, egli doveva vedere dove finiva. Così comprarono circa cento braccia di corda, e il giorno di poi, alle due del pomeriggio giunsero alla caverna, l'entrata della quale è spaziosa e larga, tutta ingombra però di spini, di caprifichi e di rovi, così folti e aggrovigliati che la chiudono e la cuoprono completamente.”
Questa citazione offre un’immagine abbastanza concreta dei dettagli dell’ingresso della caverna di Montesinos, dettagli che, a loro volta, producono un certo senso di mistero o addirittura di pericolo.
“E ciò detto, si avvicinò all'antro e vide che non avrebbe potuto calarsi né aprirsi il varco all'imboccatura se non a forza di braccia o di fendenti. Perciò, mettendo mano alla spada, cominciò ad abbattere, a troncare di quei cespi che erano all'imboccatura della spelonca. A tale sconturbo e fracasso ne uscì fuori un'infinità di corvi e di gracchi quanto mai grossi, in così folto numero e con tanta furia che rovesciarono a terra don Chisciotte, il quale se fosse stato altrettanto augure quanto era cristiano o cattolico, avrebbe ciò preso per infausto segno e avrebbe evitato di entrare in un luogo simile.”
In quest’ultima sequenza di immagini, sia visive che uditive, il narratore racconta come don Chisciotte si prepari a entrare nella caverna, mentre continua a contribuire al terrore della caverna facendo uscire da essa corvi e cornacchie che colpiscono il cavaliere errante.
Una volta entrato, don Chisciotte avrà un’immagine completamente diversa della caverna di Montesinos:
“poi, quando meno me l'aspettavo, senza sapere né come né quando, mi svegliai e mi ritrovai in mezzo al più bello, al più ameno e dilettoso prato che possa creare la natura o immaginare la più viva fantasia.”
Questa immagine idealizzata, probabilmente sognata, della grotta è ciò che don Chisciotte trasmette a Sancio e al cugino, che non sanno come credergli.
Il letto di morte di don Chisciotte
Sebbene il letto di morte di don Chisciotte non sia descritto in modo esauriente, è un’immagine molto forte nel romanzo. Lì don Chisciotte ha riacquistato la sua sanità mentale, e ciò si riflette nel fatto che egli si percepisce nuovamente come il nobiluomo Alonso Chisciano. Tutti i suoi cari sono intorno a lui: la nipote, Sancio, il prete, il baccelliere Sansone Carrasco. Il narratore mette anche un riflessione nella bocca del notaio che contribuisce a completare l’immagine di una morte serena sostenuta dall’affetto dei propri cari:
“Si trovò presente il notaro ed ebbe a dire che non aveva mai letto in nessun libro cavalleresco che alcun cavaliere errante fosse morto nel proprio letto così tranquillamente e così da buon cristiano come don Chisciotte. Il quale, fra i pianti e i lamenti di coloro che vi si trovarono presenti, rese l'anima sua: vale a dire, se ne morì.”
A questo punto, si sentono la compassione e il pianto di Sancio e degli altri presenti, mentre don Chisciotte muore serenamente, in un’immagine che irradia pace.