La follia
In questa seconda parte del Don Chisciotte il tema della follia è presentato in modo leggermente diverso da come appare nella prima parte. Mentre nel primo libro, L’ingegnoso hidalgo Don Chisciotte della Mancia, il cavaliere errante sembra completamente alienato al punto da rischiare più volte la vita nella sua ricerca di avventure cavalleresche, in questo secondo libro, L’ingegnoso cavaliere Don Chisciotte della Mancia, si assiste a una versione molto più sommessa, quasi prudente, di questa follia cavalleresca. Sorprendentemente, però, chi sembra aver perso la testa in questa seconda parte è Sancio, che nella prima parte fungeva da punto di riferimento per il suo padrone, cioè era la persona che conservava una piena consapevolezza della realtà e spesso cercava di proteggere il suo padrone dalle finzioni che inventava.
La follia è un tema centrale nel Don Chisciotte, che attraversa tutto il romanzo, in questa seconda parte il suo trattamento sembra essere diventato più complesso: don Chisciotte non è più il pazzo capace di rischiare la vita per perseguire i suoi ideali cavallereschi, ma evita certi pericoli, come fa, ad esempio, nell’avventura dei leoni, in cui capisce che è meglio proclamarsi vincitore senza esporsi agli artigli del leone maschio.
D’altra parte, si trova anche una forma alternativa di follia, ovvero quella dei duchi che, nella loro smania di divertirsi a spese di due folli come don Chisciotte e Sancio, investono molto tempo ed energie nell’allestimento di scene molto complesse. Difatti, è l’ecclesiastico che al banchetto per accogliere il cavaliere errante e lo scudiero dice: “Per la veste che porto, starei per dire che Vostra Eccellenza è altrettanto scervellato quanto questi cialtroni. Vedete un po' se non hanno da esser matti essi, dal momento che i savi ratificano le loro pazzie!”.
Infine, è interessante notare che, sul letto di morte, don Chisciotte recupera l’identità perduta all’inizio del romanzo, cioè ritorna a essere Alonso Chisciano, per lasciare il mondo da uomo sano di mente. In questo senso, la follia è completamente legata a quelle finzioni che don Chisciotte ha proiettato come avventure per tutta la storia, ma che ora, nei suoi ultimi istanti di vita, devono scomparire perché il protagonista possa morire in pace. C’è però un gesto di compassione verso la follia di don Chisciotte, dal momento che il notaro, nel descrivere il corpo di don Chisciotte ormai morto, si riferisce a lui come a un cavaliere e non come a un comune proprietario terriero: “Si trovò presente il notaro ed ebbe a dire che non aveva mai letto in nessun libro cavalleresco che alcun cavaliere errante fosse morto nel proprio letto così tranquillamente e così da buon cristiano come don Chisciotte”.
La cavalleria errante
La terza uscita di questa seconda parte è, naturalmente, dovuta al fatto che, nonostante abbia trascorso circa un mese a letto, nel suo villaggio, dopo le dure conseguenze delle sue ultime avventure (quelle che chiudono la prima parte), don Chisciotte non ha mai smesso di sentirsi un cavaliere errante. Così, per la delusione della governante, della nipote, del prete e del baccelliere Sansone Carrasco, che speravano che don Chisciotte fosse guarito da questa fantasia cavalleresca, il Cavaliere dalla Triste figura riparte, con Sancio, in cerca di avventure.
Si tratta semplicemente dello sfogo di un folle o c’è molto di più profondo nelle peregrinazioni di don Chisciotte? In linea di principio, è chiaro che Don Chisciotte nasce come parodia dei grandiosi libri di cavalleria. Tuttavia, ciò non significa che Cervantes non riconosca nell’ordine della cavalleria errante alcuni valori che vuole mettere in evidenza nella storia di Don Chisciotte. Tali valori sono legati, fondamentalmente, alla moralità, che egli ritiene che la società del suo tempo abbia perso e che cerca, attraverso il suo personaggio, di ripristinare.
D’altro canto, in questa seconda parte, Cervantes cambia l’angolazione, o, piuttosto, l’oggetto della sua parodia. Mentre nel primo libro la storia cercava di mettere in ridicolo la magniloquenza dei libri cavallereschi, in questo secondo libro Cervantes prende come riferimento parodico la prima parte del suo romanzo. In altre parole, prima parodiava libri come Amadigi di Gaula, ora fa la parodia de L’ingegnoso hidalgo Don Chisciotte della Mancia. Di conseguenza, in un certo senso, si potrebbe dire che è un messaggio ad Avellaneda e al suo apocrifo Don Chisciotte. Inoltre, il fatto che Cervantes possa usare un suo libro per parodiare sé stesso significa che questo libro ha già acquistato una certa rilevanza per il pubblico di lettori dell’epoca. In altre parole, Cervantes, nella parodia di sé stesso, non solo riflette un certo livello di autocritica rispetto alla prima parte del suo Don Chisciotte, ma sottolinea anche il successo della sua opera, mettendola quasi alla pari dei grandi libri cavallereschi.
L’amore
In linea di principio, è possibile affermare che l’amore per Dulcinea è, in larga misura, la ragion d’essere, il motore, la pietra angolare della follia di don Chisciotte. Molte delle avventure del cavaliere errante sono motivate dalla necessità di comunicare al mondo che lei, Dulcinea, è la donna più bella che esista. D’altra parte, in questo secondo libro, altrettante avventure sono legate alla necessità di “disincantare” l’amata di don Chisciotte, la cui bellezza è nascosta, da un malvagio incantatore, dietro l’immagine di una semplice contadina. L’amore, dunque, funge da stimolo alla follia, guida l’alienazione di don Chisciotte, fornendogli la ragione perfetta per imbarcarsi in qualsiasi avventura. Difatti, don Chisciotte accetta il duello con il cavaliere dalla Bianca Luna perché quest’ultimo vuole far confessare al Cavaliere dai Leoni che Dulcinea non è bella come la sua amata, chiunque essa sia.
Tuttavia, l’amore per Dulcinea non è l’unico modo in cui questo sentimento viene trattato nel romanzo. C’è anche l’amore tra don Chisciotte e Sancio, riflesso nel loro rapporto di amicizia, che in questa seconda parte sembra consolidare e trasfigurare la questione gerarchica che esiste tra cavaliere e scudiero. Don Chisciotte e Sancio si amano e si rispettano. Questo si vede soprattutto quando Sancio viene salvato dal pozzo, dopo aver abbandonato il governo della sua isola, e don Chisciotte, commosso, si riunisce al suo scudiero, così come nel pianto sconsolato di Sancio alla morte del suo padrone.
La religione
La fede in Dio, come afferma lo stesso don Chisciotte in più di un’occasione, è una condizione essenziale del buon cavaliere errante. Di fatti, è il primo consiglio che dà a Sancio su come essere un buon governatore. La religione cattolica viene presentata come pratica fondamentale del cavalierato, ma anche come quadro morale in cui si iscrivono le persone buone. Per esempio, il fatto che il notaro dica di non aver mai visto un cavaliere errante morire in modo così calmo e cristiano, mostra anche l’importanza della religione nel modo in cui le persone erano considerate all’epoca. Morire in modo “cristiano” inteso come morire bene, in pace.
Tuttavia, il cristianesimo non è l’unica religione presente nel Don Chisciotte. Cervantes dà risalto anche alla religione musulmana, inizialmente attraverso lo storico che racconta le avventure di don Chisciotte, Cide Hamete Benengeli. Ma l’autore mette in luce anche una situazione particolare della Spagna dell’epoca, attraverso il caso del vicino si casa di Sancio, Ricote il morisco. Importante sottolineare che con il termine moro si intende una persona figlia di quei musulmani che continuano a vivere nella penisola iberica dopo la Riconquista del re Filippo III. Paradossalmente, Ricote, nella conversazione con Sancio, elogia questa misura dettata dal re. In un certo senso, il personaggio di Ricote funge da esempio dei sentimenti di diversi morischi che, in modo insolito, difendono la posizione del governo spagnolo che li danneggia.
La realtà e l’immaginazione
In questa seconda parte, don Chisciotte non è più il solo a interpretare arbitrariamente la realtà e a proiettare avventure dove non ce ne sono. Anche Sancio, alienato dall’ambizione di ottenere il titolo di governatore, è più volte vittima di una percezione alterata della realtà. Tuttavia, queste finzioni in cui sono coinvolti padrone e scudiero sono, quasi sempre in questo secondo libro, scenette messe in piedi dai duchi per divertirsi con le follie dei loro ospiti. Il confine tra il reale e l’immaginario si confonde con gli sforzi dei nobili di disegnare scenari che attivino la follia cavalleresca di don Chisciotte e quella del suo scudiero. Cide Hamete arriva addirittura ad affermare che queste messe in scena sono così realistiche che persino i fanti dei duchi sembrano, a volte, dimenticare che stanno recitando.
D’altra parte, è anche importante sottolineare che l’immaginazione di don Chisciotte, cioè la sua capricciosa proiezione della realtà (che nella prima parte, ad esempio, lo portava a vedere una legione di giganti dove c’erano solo mulini a vento) è la causa principale di tutte le sue disgrazie, intendendo questo termine come sofferenza fisica ed emotiva. Sancio, da parte sua, soffre lo stesso, e un esempio di ciò è che in una di queste scenette messe in piedi dai duchi, viene condannato a tremilatrecento frustate sulle natiche per disincantare Dulcinea. L’ironia più grande è che sia proprio Sancio a sostenere che l’amata di don Chisciotte sia incantata. In questo senso, è chiaro che Sancio è talmente alienato dal raggiungimento di questo governo che, per lui, il reale e l’immaginario si fondono in una dimensione più confusa e ambigua.
La letteratura
Don Chisciotte è un’opera che riflette permanentemente sulla sua condizione di esistenza, cioè è un testo letterario che, a sua volta, affronta diverse questioni letterarie. In questo senso, può essere classificato come metaromanzo. In questa seconda parte, questo concetto di metaromanzo diventa un po’ più complesso rispetto alla prima parte. Da un lato, il testo ritorna sempre alla sua prima parte (L’ingegnoso hidalgo Don Chisciotte della Mancia), pubblicata nel 1605, dall’altro c’è un lavoro esaustivo di Cervantes per screditare un altro testo letterario, l’apocrifo Don Chisciotte di Avellaneda. A questo proposito, è chiaro che, come sostengono diversi critici, Don Chisciotte è, tra le tante cose, una profonda e lucida riflessione sulla letteratura. Tuttavia, è importante sottolineare che questa riflessione, a volte, assume un tono piuttosto aggressivo quando un indignato Cervantes fa ripudiare ai suoi personaggi l’autore che ha “rubato” il suo eroe.
Tuttavia, al di là dei numerosi riferimenti a diversi testi letterari che compaiono nel romanzo, c’è anche un chiaro desiderio da parte di Cervantes di definire quello che per lui è un modo degno di esercitare il mestiere di scrivere. A questo proposito, l’autore utilizza Sancio come ambasciatore all’interno del testo per sentenziare: “Al denaro e al beneficio dunque bada l'autore? Miracolo se potrà riuscir bene; perché non farà che abborracciare, abborracciare, come un sarto sotto le feste di Pasqua; e i lavori fatti in fretta e furia non si compiono mai con la perfezione che si richiede”. Con questa affermazione Cervantes critica Avellaneda con il suo apocrifo Don Chisciotte, che accusa di essere un autore mediocre per aver privilegiato la fama e il denaro rispetto alla qualità letteraria.
Lo status sociale
In linea di principio, è possibile affermare che l’ossessione di Sancio di raggiungere lo status sociale di governatore è, in larga misura, ciò che lo aliena dalla realtà, quasi alla maniera di don Chisciotte.
Ora, prima di partire per la terza uscita con il suo padrone, Sancio parla con sua moglie Teresa. In questa conversazione, cerca di convincerla dell’importanza di accompagnare don Chisciotte, sostenendo che solo accompagnando il suo padrone potrà accedere, una volta per tutte, al governo dell’isola. E questo titolo di governatore, a sua volta, gli consentirà una serie di possibilità legate allo status sociale della famiglia Panza: “[…] che se Dio mi fa arrivare ad avere un qualche governo, devo, moglie mia, far fare a Maria Sancia un matrimonio così alto che non si possa giungere a lei se non con darle di «signoria»”. Questo è il desiderio di Sancio, dunque, far sposare la figlia con un uomo di alto rango sociale in modo che, con questa unione, tutta la famiglia abbia uno status diverso.
Teresa Panza, però, non è affatto d’accordo con il marito: “Questo no, Sancio […] maritatela con un suo pari, che è la meglio. Che se dagli zoccoli la fate passare alle pianelline e […] da una Marietta e da un tu a donna Tizia e a signoria, la ragazza non ci si rinverrà e ad ogni passo incapperà in mille scerpelloni […]”. Il timore di Teresa è che la figlia non sia all’altezza dell’ascesa sociale proposta da Sancio. In altre parole, la moglie dello scudiero è convinta che per la famiglia sia meglio accontentarsi del posto che occupa nella scala sociale, senza cercare di appartenere a uno strato che non è il suo. Paradossalmente, Sancio, che in questa conversazione con la moglie è ancora restio a darle ragione, diversi capitoli dopo, quando finalmente otterrà il titolo di governatore, vi rinuncerà presto perché non si sente all’altezza del compito.
Infine, è interessante notare che il testo non prende una posizione specifica rispetto a un’idea in quasi nessuno dei temi analizzati in questa sezione. A eccezione del tema della letteratura, in cui Cervantes prende una posizione definita ed esplicita, il resto delle idee sono presentate senza alcun giudizio di valore specifico. Per esempio, sul tema dello status sociale, ogni personaggio ha la sua idea, la espone, la difende, ma in nessun momento il testo implica che una sia migliore dell’altra. I temi scorrono in modo naturale e organico con la trama e non cercano mai di far prevalere un messaggio sulla storia.