Riassunto
Capitolo 1: Della conversazione che il barbiere e il curato ebbero con don Chisciotte riguardo alla sua malattia
All’inizio del capitolo, Cide Hamete Benengeli racconta che è passato un mese dall’ultima volta che il prete e il barbiere hanno visto don Chisciotte. Quando finalmente vanno a fargli visita, lo trovano “tanto magro e risecchito che pareva null’altro che un corpo mummificato”. Don Chisciotte, tuttavia, li accoglie molto bene e parla con assoluta lucidità di tutto, il che fa pensare ai due uomini che ora stia meglio e che sia sano di mente. Anche la nipote e la governante sono presenti al colloquio e ringraziano Dio di vedere il nobile così lucido. Poi, il prete, nel tentativo di confermare la sanità mentale di don Chisciotte, fa riferimento ad alcune notizie provenienti dalla corte, come l’imminente attacco dell’esercito turco. Allora, il nobile rivela che intende mobilitare tutti i cavalieri erranti del regno per fermare gli invasori. A questo punto, diventa chiaro che la sua follia è ancora intatta. Il barbiere prende la parola e racconta la storia di un pazzo di Siviglia, che non era meno pazzo di lui, sebbene fosse istruito in molte materie. Con questo racconto, cerca di mettere don Chisciotte alla prova e di fargli capire che deve continuare a riposare. Don Chisciotte, da parte sua, si sente offeso dal paragone e lo dice al barbiere.
Poi il prete e il barbiere propongono una conversazione il cui tema principale è la cavalleria. Don Chisciotte ne parla con assoluta naturalezza, lasciando intendere che crede ancora di essere un cavaliere errante. Tuttavia, ora sembra molto più attento di prima nel modo in cui lo esprime. Per esempio, quando i suoi interlocutori gli chiedono dell’esistenza dei giganti, egli motiva la sua risposta affermativa con argomenti biblici e paleontologici.
Verso la fine del capitolo, il prete e il barbiere sentono la nipote e la governante urlare, ed escono per vedere cosa stia succedendo.
Capitolo 2: Che tratta della memoranda contesa che Sancio Panza ebbe con la nipote e con la governante di don Chisciotte, nonché di altri piacevoli argomenti
La governante e la nipote gridano a Sancio Panza di lasciare la casa e lo accusano di essere il responsabile della follia di don Chisciotte. Sancio, da parte sua, dice loro che è stato il nobile a trascinarlo in queste assurde avventure, promettendogli un’isola che non gli ha ancora dato. Sentendo tale scandalo, don Chisciotte stesso ordina a Sancio di entrare, mentre il prete e il barbiere si congedano e lasciano la casa. Una volta rimasti soli, don Chisciotte chiede a Sancio di raccontargli cosa si dice in giro del suo coraggio. Sancio, dopo avergli fatto promettere di non arrabbiarsi, gli dice che tutti pensano che sia pazzo, e aggiunge di aver sentito che le sue storie stanno già circolando in un libro intitolato Il Fantasioso Nobiluomo don Chisciotte della Mancia, scritto da un certo Cide Hamete Berenjena. Don Chisciotte sospetta che questo sia il vero nome dell’autore e Sancio si offre di andare a cercare il baccelliere Sansone Carrasco, la persona che gli ha detto dell’esistenza del libro, affinché possa dargli maggiori informazioni. Don Chisciotte risponde che gli farebbe molto piacere incontrarlo e Sancio parte subito alla ricerca del baccelliere.
Capitolo 3: Dello spassoso discorso che don Chisciotte, Sancio Panza e il baccelliere Sansone Carrasco tennero fra loro
Mentre aspetta che Sancio ritorni con il baccelliere Sansone Carrasco, don Chisciotte si lamenta del fatto che le sue storie siano state scritte da un moro, poiché “non c’era da potersi aspettare nulla di vero”. Quando il baccelliere arriva, non solo conferma l’esistenza del libro, ma gli dice anche che ne sono state fatte più di dodicimila copie, che sono state stampate in diversi luoghi e che l’opera è stata tradotta in diverse lingue. Inoltre, Sansone Carrasco dice a don Chisciotte che le avventure narrate nel libro gli hanno dato “bella fama” e “bella rinomanza”. D’altra parte, afferma che è possibile che l’autore abbia tralasciato alcuni dettagli, anche se questo non ha influito in alcun modo sulla popolarità del libro. Verso la fine del capitolo, Sancio decide di andarsene a casa e promette di tornare per soddisfare i dubbi del baccelliere sulla veridicità degli aneddoti contenuti nel libro. Don Chisciotte e il baccelliere, nel frattempo, pranzano e fanno un riposino fino al ritorno di Sancio, per poi riprendere la conversazione.
Capitolo 4: Dove Sancio Panza risponde ai dubbi e alle domande del baccelliere Sansone Carrasco e si narrano altri fatti degni di essere conosciuti
In seguito all’interesse mostrato dal baccelliere Sansone per la storia del furto dell’asino, Sancio inizia a dare la sua versione dell’evento. Ascoltandola, il baccelliere nota che ci sono leggere differenze tra questa versione e quella che appare nel libro. Don Chisciotte chiede se questo autore abbia scritto una seconda parte, al che il baccelliere Sansone risponde che l’ha scritta, ma non si sa chi la possiede. Aggiunge poi che il pubblico è diviso tra chi ritiene che “Delle gesta di don Chisciotte bastano le narrate” e chi dice: “Ci si diano ancora chisciottate […], e sia quel che vuol essere, che ne siamo ben contenti”. Allora Sancio commenta che se l’autore si concentra solo sul denaro il suo lavoro è condannato alla mediocrità. All’improvviso, mentre riflette su tale argomento, sente il nitrito di Ronzinante. Don Chisciotte interpreta il verso dell’animale come un segno e decide che uscirà di nuovo dopo un paio di giorni. A questo punto, Sancio spiega a Sansone che se don Chisciotte vorrà portarlo in questa nuova avventura, non sarà disposto a combattere contro nessuno, e che questo compito spetterà a don Chisciotte. Poi, Sancio aggiunge che non intende “guadagnar fama di valoroso, bensì del migliore e più fedele scudiero”. Infine, don Chisciotte chiede al baccelliere di comporre alcuni versi d’addio per Dulcinea del Toboso, quest’ultimo accetta la proposta e poi sia lui che Sancio vanno via.
Capitolo 5: Dell’accorta e piacevole disputa che avvenne fra Sancio Panza e sua moglie Teresa Panza, nonché di altri fatti degni di buon ricordo
Quando lo scudiero di don Chisciotte arriva a casa, la moglie gli chiede perché sia così felice. Sancio risponde che la sua gioia è dovuta al fatto che torna a servire il suo padrone, don Chisciotte, che ha deciso di partire per la terza volta in cerca di avventure. Teresa, la moglie di Sancio, si stupisce del modo in cui il marito le parla, al punto da affermare che parla in una maniera così “involuta” che non si capisce nulla. La donna gli chiede solo di tornare al più presto da “tanta disavventura”. Allora, marito e moglie iniziano una discussione in cui Sancio afferma che quando otterrà il governo che don Chisciotte gli ha promesso, farà sposare sua figlia, Maria Sancia, con qualche nobile, cosa che Teresa rifiuta categoricamente poiché, secondo lei, sposarla con un suo pari è la cosa migliore da fare. La discussione continua finché Teresa non cede e chiede a Sancio di inviare del denaro quando il governo gli sarà consegnato, così che lei vestirà Maria Sancia come una contessa. Infine, rimprovera il marito perché fa quello che vuole con la figlia, anche se, allo stesso tempo, dice di capire la situazione, poiché “noi donne siamo nate con questo peso, cioè, di star soggette ai nostri mariti, anche che siano di gran carciofi”, cioè anche se sono degli sciocchi.
Analisi
Cide Hamete inizia a raccontare questa seconda parte del Don Chisciotte senza preoccuparsi troppo di stabilire un contesto enunciativo più o meno solido. In altre parole, si accontenta di posizionarsi solo un mese dopo gli ultimi eventi della prima parte. D’altro canto, il testo ha bisogno di pochissime pagine affinché don Chisciotte sia pronto a partire in cerca di avventure. Infatti, il solo accenno alla possibilità che il Turco scenda in Spagna è sufficiente a don Chisciotte per vaneggiare di cavalleria e promettere una partenza imminente. Il barbiere, dal canto suo, racconta la storia del pazzo di Siviglia, facendo arrabbiare don Chisciotte. Nella risposta di quest’ultimo c’è un grado di razionalità molto difficile da trovare nel protagonista della prima parte. Nel suo discorso, don Chisciotte affronta sia il tema della follia che quello della cavalleria:
“... soltanto mi sforzo di far capire al mondo l’errore in cui è non restaurando in sé il beatissimo tempo quando vi campeggiava l’ordine della cavalleria errante. Ma la nostra età depravata non è meritevole di godere di sì gran bene come quello che godettero le età in cui i cavalieri erranti presero su di sé e si addossarono la difesa dei regni, la protezione delle donzelle, il soccorrere gli orfani e i pupilli, la punizione dei superbi e la ricompensa degli umili. […] Oggi invece trionfa sulla operosità l’infingardaggine, sul travaglio l’indolenza, sulla virtù il vizio, sul coraggio l’arroganza, la teorica sulla pratica delle armi.”
In questa citazione è evidente che le argomentazioni di don Chisciotte a favore dei cavalieri erranti non sono solo razionali, ma anche morali. In altre parole, il mondo ha sempre avuto bisogno dei cavalieri erranti per i valori che trasmettono, anche se probabilmente mai come nel periodo in cui vive don Chisciotte, quando il mondo è caduto in uno stato di profonda decadenza morale.
Per comprendere questa prospettiva, è necessario contestualizzare l’opera. Cervantes è uno degli autori più importanti di quello che è stato definito il Secolo d’Oro spagnolo, un periodo compreso tra il 1492 e il 1659, durante il quale la Spagna divenne una superpotenza politica e culturale, soprattutto durante i regni di Carlo I e Filippo II. Tuttavia, già nei primi anni del XVII secolo, Cervantes inizia a percepire il declino di questo periodo. L’autore nota che alcuni valori, che brillavano all’apice del Secolo d’Oro spagnolo, sono andati perduti e fa rivivere alcuni temi della morale cavalleresca attraverso il suo personaggio come forma di critica alla decadenza morale che percepisce.
D’altra parte, il discorso di don Chisciotte in questa seconda parte è così razionale e coerente che, a volte, non sembra essere pazzo. In realtà, è il mondo attuale, che ha perso quasi tutte le virtù di un tempo, a essere presentato come alienato. Tuttavia, il fatto che don Chisciotte non sembri pazzo non implica che non lo sia. Ma, la follia della seconda parte è molto diversa da quella della prima, è in qualche modo una follia "migliore" che, pur contenendo una forte censura del mondo circostante, è anche dotata di un profondo senso umanistico. Allo stesso tempo, questa nuova versione della follia di don Chisciotte non lo porterebbe mai a combattere contro i mulini a vento, scambiandoli per giganti. Il don Chisciotte completamente folle resta limitato alla prima parte e, di fatto, è quello che questa seconda parte, in diversi passaggi, parodia.
Don Chisciotte, nel secondo capitolo, chiede a Sancio cosa si dica di lui. Naturalmente, a tutti è rimasta l’immagine del don Chisciotte della prima parte, motivo per cui la maggior parte della gente pensa che sia pazzo. Poi, il suo scudiero gli racconta dell’esistenza di un libro (la prima parte del Don Chisciotte, pubblicata nel 1605) in cui sono narrate tutte le loro avventure vissute fino a quel giorno. L’autore di questo libro, secondo Sancio, si chiama “Cide Hamete Berenjena”, dal nome di Cide Hamete Benengeli, uno storico moresco che si è dedicato a raccogliere tutte le storie di don Chisciotte e Sancio. In altre parole, Sancio fa riferimento al vero libro, quello scritto da Cervantes, e lo attribuisce a Cide Hamete, un personaggio che Cervantes stesso inserisce come compilatore delle storie del cavaliere errante e del suo scudiero. Si tratta di un punto di svolta nell’opera, poiché altera la logica dell’intertestualità che esisteva nella prima parte. Mentre nel libro del 1605 quasi tutti i testi che irrompevano nel racconto erano libri di cavalleria, in questa seconda parte, pubblicata dieci anni dopo, i personaggi entrano in dialogo con un libro di cui essi stessi sono stati protagonisti e, nel farlo, non hanno remore a criticare l’autore stesso. È bene chiarire che questo autore è il personaggio fittizio Cide Hamete, anche se, ovviamente, Cervantes gioca a criticare sé stesso attraverso le critiche che i personaggi rivolgono allo storico moresco. È per questo tipo di strategia letteraria che il Don Chisciotte della Mancia è considerato il testo che si pone come punto di partenza del romanzo moderno.
Poi arriva il baccelliere Sansone Carrasco, al quale don Chisciotte chiede di questo libro in cui sono narrate le sue “imprese”. Il baccelliere gli spiega che ci sono tutte e, in questo senso, sembra scivolare in una critica alla violenza del testo: “[…] certuni che han letto la storia affermano che sarebbero stati lieti se gli autori di essa si fossero dimenticati di qualcuna delle tante legnate che in varie occasioni toccarono al signor don Chisciotte”. Vale la pena notare che questa seconda parte sarà molto meno violenta per don Chisciotte, almeno dal punto di vista fisico. D’altra parte, Carrasco insinua anche, con un certo tono critico, che l’autore del primo Don Chisciotte ha dimenticato alcuni dettagli importanti nello scrivere la storia. Qui, ancora una volta, è evidente come questa seconda parte dialoghi con la prima e sebbene Cervantes utilizzi diversi passaggi del testo per rendere chiara la sua indignazione nei confronti della versione apocrifa di Avellaneda, ciò non gli impedisce di riflettere, sempre con una punta di ironia, sui propri errori contenuti nella prima parte del romanzo.
Inoltre, nel quarto capitolo è presente una frase tanto chiara quanto diretta sulla creazione artistica. Cervantes, attraverso il personaggio di Sancio, afferma che l’autore che si concentra solo sul denaro condanna la sua opera alla mediocrità. È interessante notare che Avellaneda non viene quasi mai citato esplicitamente in questa seconda parte. In definitiva, non merita nemmeno di essere menzionato. Tuttavia, è chiaro come Cervantes sia indignato dalla versione apocrifa del suo Don Chisciotte e, ogni volta che può, la critica aspramente. In questo caso, accusa Avellaneda di mediocrità, perché con il suo plagio aveva cercato solo la fama o il denaro che il personaggio di Don Chisciotte poteva offrirgli, ignorando completamente l’aspetto più importante: il valore letterario dell'opera.
Infine, nel quinto capitolo , Sancio discute con la moglie della sua imminente partenza con don Chisciotte. Il narratore osserva che lo scudiero parla improvvisamente “in modo diverso da quello che ci si poteva ripromettere dalla sua limitata intelligenza”. Questo “cambiamento” nel modo di parlare di Sancio è solo uno dei numerosi contrasti che si possono trovare tra la prima parte e questa seconda. In questo senso, in quest’ultima, spicca un Sancio così loquace e persino, a volte, così arguto, che non sembra essere lo stesso della prima parte. La stessa Teresa Panza dice a un certo punto al marito: “[…] voi parlate in maniera così involuta che non c’è chi vi capisca”. D’altra parte, il narratore afferma che anche lo stesso Cide Hamete Benengeli, a un certo punto, dubita che questo capitolo V non sia apocrifo proprio per il cambiamento di tono di Sancio.
A tal proposito, occorre fare una precisazione sul ruolo di Benengeli in questa seconda parte del romanzo. In linea di principio, egli viene presentato come lo storico musulmano che ha raccolto le avventure di don Chisciotte e le ha pubblicate in un libro (per i personaggi, l’unico libro su Don Chisciotte esistente; per i lettori, la prima parte del Don Chisciotte della Mancia). Riguardo ciò, la maggior parte dei critici concorda sul fatto che la presenza di autori fittizi nel Don Chisciotte (Cide Hamete, il traduttore moresco, il primo autore) sia una parodia dei cronisti o degli storici che venivano citati nei romanzi cavallereschi. Il loro status non è quello di narratori in sé, ma sono citati, citati tra virgolette, o menzionati in un discorso indiretto. Nel caso degli autori fittizi del Don Chisciotte, sono tutti subordinati a quella voce anonima che organizza, prologa e cura l’intero testo. Come molti critici la chiamano: il narratore-editore.
Ora, tornando al caso di Benengeli, una delle funzioni più ricorrenti dello storico musulmano in questa seconda parte è quella di essere presentato, o addirittura citato, come responsabile della narrazione degli episodi più plausibili. In questo senso, Cide Hamete Benengeli è, nelle parole dell’ispanista e studioso inglese di Cervantes E.C. Riley “[…] una sorta di beffa, e […] l’unico esempio di totale implausibilità nel libro”. Si può quindi affermare che, con Benengeli, Cervantes non si limita a parodiare un artificio della letteratura cavalleresca, ma riesce a dare maggiore spessore al suo romanzo, rendendo il moresco un personaggio molto più attivo e interessante di quelli fittizi presenti nei libri di cavalleria.
Allo stesso modo, come analizza il filologo spagnolo Rafael Lapesa, Cervantes combina i paradossi, la sintassi e le altre strategie del concettualismo cortese che Sancio ha imparato da don Chisciotte con la parlata colloquiale di Teresa, che riesce a malapena a decifrare ciò che dice il marito. Interessante notare come Teresa Panza, con il suo linguaggio semplice e paesano, proponga una critica a questo raffinato linguaggio aulico, praticamente incomprensibile per la gente comune. Lei porta la voce del buon senso, della prudente saggezza e persino della rivendicazione femminile contro il dominio assoluto del marito. D’altra parte, il linguaggio aulico è associato a una forma di espressione che non si collega in modo naturale alla realtà, è il patrimonio di coloro che hanno perso la ragione, come don Chisciotte e, in questa seconda parte, anche Sancio Panza.